Vincenzo Salvatore Carmelo Francesco Bellini è stato un compositore italiano, tra i più celebri operisti dell’Ottocento. Figlio e nipote d’arte nacque a Catania il 3 novembre del 1801 e morì a Puteaux il 23 settembre del 1835.
All’età di quattordici anni visto l’interesse dimostrato nei confronti della musica si trasferì dal nonno Vincenzo Tobia Nicola Bellini, rinomato compositore di musica sacra, il quale intuì l’alta predisposizione del nipote verso la composizione.Intorno al 1817 la produzione di Bellini si fece particolarmente intensa, tanto da convincere il senato civico a concedergli una borsa di studio per il perfezionamento, da svolgersi al Real College di Musica di San Sebastiano, dopo una supplica datata 1818. Nel 1819 ottenne la borsa di studi e si trasferì a Napoli dove inizialmente fu allievo di Giacomo Tritto e successivamente di Nicola Antonio Zingaretti, il quale lo indirizzò verso lo studio dei classici come Palestrina e Pergolesi. Zingaretti sviluppò in Bellini il gusto per la melodia piana ed espressiva, senza artifici e abbellimenti secondo i principi della scuola napoletana.In questo periodo Bellini compose musica sacra, alcune sinfonie d'opera e alcune arie per voce e orchestra, tra cui la celebre Dolente immagine, il cui testo è attribuito alla sua fiamma di allora, Maddalena Fumaroli, opera oggi nota solo nelle successive rielaborazioni per voce e pianoforte.
Nel 1825 presentò al teatro del conservatorio la sua prima opera, Adelson e Salvini, come lavoro finale del corso di composizione. L'anno dopo colse il primo grande successo con Bianca e Fernando, andata in scena al teatro San Carlo di Napoli con il titolo ritoccato in Bianca e Gernando per non mancare di rispetto al principe Ferdinando di Borbone.
L'anno seguente il celebre Domenico Barbaja commissionò a Bellini un'opera da rappresentare al Teatro alla Scala di Milano. Infatti, nel 1827 compose Il Pirata e nel 1829 La Straniera ottenendo un clamoroso successo. La stampa riconosceva in Bellini l’unico operista italiano in grado di contrapporre a Rossini uno stile personale da cui prende la bellezza proprio quest'ultimo, basato su una maggiore aderenza della musica al dramma e sul primato del canto espressivo rispetto al canto fiorito.
Nel1830 compose I Capuleti e i Montecchi rappresentata a La Fenice, successivamente nel 1831 La Sonnambula eseguita al Teatro la Scala di Milano dove raggiunse nuove vette trionfali. Nel 1831 la prima della Norma non andò altrettanto bene fino alle successive rappresentazioni. La carriera di Bellini si concluse con il trionfo de I puritani a Parigi. In una lettera di Giuseppe Verdi, datata 1869 e indirizzata a Florimo, il grande compositore esprime la sua ammirazione nei confronti del compositore catanese:
"Sono poi completamente d'accordo con voi, caro Florimo, nelle lodi che tributate a Bellini. S'egli non aveva alcune delle brillanti qualità di qualche suo contemporaneo, aveva ben maggiore originalità, e quella tal corda che lo rende tanto caro a tutti, e che nel tempio dell'arte lo colloca in una nicchia ove sta solo... Lode a lui e lode grandissima".
Considerato, alla pari di Rossini e Donizetti, il compositore per antonomasia dell’era del bel canto italiano, in particolare dell’inizio del XIX secolo. Il compositore scrisse dieci opere liriche in tutto, le più famose La sonnambula, Norma e i Puritani.
L’opera che andremo ad analizzare è Capuleti e Montechi scritta nel 1830 per il carnevale e rappresentata al Teatro La Fenice di Venezia. L’opera fu composta in un mese e mezzo su libretto scritto da Felice Romani, per "Giulietta e Romeo di Nicola Vaccaj, impiegando gran parte di musica già composta per l'opera "Zaira" rappresentata a Parma l'anno precedente.
La riuscita fu completa: grande, infatti, fu il successo dei Capuleti e i Montecchi. Tragedia lirica in due atti e quattro parti su libretto di Felice Romani prima rappresentazione a Venezia Teatro la Fenice 11 Marzo 1830.
Il libretto fu scritto da Felice Romani ben sette delle dieci opere di Bellini, derivando spesso la trama da fonti francesi coeve (Rinaldi 1965; Cella 1968, 449-573), le vaghe precisazioni della vedova del librettista, secondo la quale il poeta si era attenuto alla lineare novella di Bandello piuttosto che alla tragedia di Shakespeare. “Più che alla tragedia dello Shakespeare – GIULIETTA E ROMEO – il nostro Romani si attenne alla semplicità, ‘della narrazione d’una pietosa storia che in Verona al tempo del signor Bartolomeo Scala avvenne’, NOVELLA IX di Matteo Bandello (dalla quale lo Shakespeare medesimo trasse il soggetto) per svolgere il suo componimento tutt’affatto Italiano e adattarlo alla scena lirica.” (Branca 1882, 155) Così presenta il librettista Felice Romani il lavoro. Come in Zaira, la coppia dei protagonisti è affidata a due voci femminili. La scelta del mezzosoprano en travesti per la parte di Romeo è quanto mai appropriata alla rappresentazione di un amore adolescenziale. È semmai interessante come l'amore tra fratello e sorella in Zaira, spesso con la musica relativa, si converta senza difficoltà in quello tra i due innamorati di Verona.
Nell'arco della parabola creativa belliniana I Capuleti e i Montecchi segna il punto di massima canonizzazione delle macrostrutture e microstrutture operistiche. La successione dei numeri musicali, la loro articolazione interna, così come la struttura del periodo musicale concedono poco all'imprevisto, ma al tempo stesso mostrano un equilibrio maggiore che nelle precedenti partiture. Certo si tratta di una soluzione dettata anche dalla fretta, ma resta il fatto che con quest'opera Bellini sembra gettare le fondamenta su cui si svilupperà la ricerca formale dei capolavori successivi. Negli ultimi anni I Capuleti e i Montecchi sono stati spesso allestiti nei teatri italiani, anche in virtù di una scrittura vocale non trascendentale e di una drammaturgia semplice ma efficace, basata su una trama di sicura presa. In precedenza, tuttavia, essa dovette soffrire di ogni genere di stravolgimenti. Per tutto il corso dell’Ottocento, seguendo l'esempio dato da Maria Malibran, il tenero e commovente duetto finale composto da Bellini - libero da vincoli formali ma reo di non concedere abbastanza all'esibizione vocale - venne sistematicamente sostituito dal convenzionale finale dell'opera di Vaccaj.
Negli ultimi giorni del 1829 Bellini si trovava a Venezia per curare l’allestimento del Pirata, che sarebbe andato in scena alla Fenice - con gli opportuni adattamenti – ai primi del gennaio 1830. Come terza opera della stagione, il teatro veneziano aveva programmato un nuovo lavoro di Pacini. Ma non appena fu chiaro che quest’ultimo, oberato di lavoro, non avrebbe tenuto fede all’impegno, la presidenza del teatro, l’impresario e l’intera città si diedero a pregare Bellini perché scrivesse lui un’opera al posto del collega inadempiente. Il compositore fu dapprima riluttante, non amando lavorare assillato dalla fretta e nutrendo forti timori che il poco tempo a disposizione avrebbe portato a un insuccesso; ma finì per cedere alle pressioni. Convocato a Venezia Romani, compositore e librettista convennero di utilizzare nuovamente il libretto che lo stesso Romani aveva scritto, pochi anni prima, per Nicola Vaccai (Giulietta e Romeo, Milano 1825), rimaneggiandolo e mutandone il titolo. Il libretto si prestava perfettamente alla compagnia di canto scritturata dalla Fenice per quella stagione: compagnia nella quale primeggiava il mezzosoprano Giuditta Grisi, cui Bellini affidò la parte di Romeo. Assegnando il ruolo del giovane amoroso a una donna in abiti maschili, il compositore si inseriva in una tradizione di lunga data, che in quegli anni non era ancora avvertita come antiquata, nonostante fosse ormai prossima a cadere in disuso. Per parte sua, anche Bellini intendeva rielaborare materiale già pronto: I Capuleti e i Montecchi, infatti, riprendono in gran parte – riadattandole o utilizzandole tali e quali – le melodie diZairache, dopo lo sfortunato esordio al Teatro Ducale di Parma nel 1829, era stata ritirata dalle scene. La nuova opera fu portata a termine nel giro di un mese e mezzo, un tempo insolitamente breve per Bellini, che accusò lo sforzo con tensioni nervose e problemi di salute. I Capuleti e i Montecchiandarono in scena l’11 marzo; nei ruoli principali, oltre alla Grisi, si produssero il soprano Rosalbina Carradori Allan (Giulietta), il tenore Lorenzo Bonfigli (Tebaldo) e il basso Gaetano Antoldi (Capellio). Il pubblico veneziano accolse la nuova opera col più grande entusiasmo. Alla fine di quell’anno, il 26 dicembre, I Capuleti e i Montecchi aprirono la stagione di carnevale al Teatro alla Scala di Milano. Per l’occasione, Bellini rimaneggiò ampie porzioni della partitura: abbassò, in particolare, la parte di Giulietta per renderla adatta alla tessitura del mezzosoprano Amalia Schütz Oldosi. Della nuova versione, tuttavia, il compositore non rimase interamente soddisfatto.
Atto primo. A Verona nel XIII secolo. La città è dilaniata dalla lotta che oppone la famiglia dei Capuleti, guelfi, a quella dei Montecchi, ghibellini. Capellio, principale esponente dei Capuleti, ha chiamato i suoi a raccolta per esortarli alla lotta contro la fazione avversaria: informa gli astanti che i Montecchi, sostenuti dall’amicizia di Ezzelino, hanno per capo Romeo, l’odiato uccisore di suo figlio, e che questi sta per inviare un ambasciatore con proposte di pace. Lorenzo, contro il parere generale, consiglia di ricevere e ascoltare il messaggero. Capo della fazione guelfa è Tebaldo, che promette di vendicare col sangue di Romeo (“È serbata a questo acciaro”) l’uccisione del figlio di Capellio. Quest’ultimo gli offre in sposa la figlia Giulietta: le nozze si celebreranno la sera stessa. Lorenzo, che conosce il segreto legame della fanciulla con Romeo Montecchi, sconsiglia il matrimonio accampando il pretesto della malattia di Giulietta. Tebaldo si dichiara pronto a rinunciare alle nozze, se dovessero costare una sola lacrima alla fanciulla; ma Capellio lo rassicura che Giulietta sarà eternamente devota a chi vendicherà il fratello ucciso. Giunge, intanto, l’ambasciatore dei Montecchi con proposte di pace: questi non è altri che Romeo, rientrato in Verona sotto mentite spoglie. Propone che la pace sia suggellata dalle nozze tra Romeo e Giulietta (“Se Romeo t’uccise un figlio”); ma Capellio e i suoi rifiutano sdegnati, rinnovando anzi i loro propositi bellicosi. Intanto Giulietta, sola nei suoi appartamenti, ha appreso la decisione paterna: compiange la sua sorte e invoca l’amato Romeo, che crede lontano (“Oh, quante volte, oh, quante”). Lorenzo le rivela che il giovane è tornato in città, in incognito, e lo introduce per un uscio segreto nella stanza di Giulietta. Romeo si getta nelle braccia dell’amata; alla sua proposta di fuggire con lui (“Sì, fuggire: a noi non resta”), la giovane rifiuta in nome del dovere e dell’obbedienza filiale.
Romeo cerca inutilmente di persuaderla; poi, al risuonare della musica nuziale, si fa convincere ad allontanarsi e a mettersi in salvo. Nel palazzo di Capellio dame e cavalieri festeggiano le imminenti nozze di Giulietta con Tebaldo. Romeo, introdottosi tra i convitati in abiti guelfi, confida a Lorenzo che nel frattempo mille ghibellini armati sono penetrati in Verona, pronti a cogliere di sorpresa gli avversari. Lorenzo cerca invano di convincerlo ad allontanarsi da Verona e a rinunciare ai suoi propositi. S’ode un tumulto: un gruppo di Capuleti è assalito da alcuni Montecchi in armi; i convitati fuggono, Romeo corre ad unirsi ai suoi. Mentre si spegne il clamore, giunge Giulietta in abito da sposa, in ansia per l’esito dello scontro. Romeo la raggiunge e cerca nuovamente di convincerla a seguirlo; ma irrompono Tebaldo e Capellio, alla testa dei guelfi armati. Romeo, riconosciuto, riesce a sottrarsi all’ira dei nemici solo grazie all’intervento dei suoi.
Atto secondo. Giulietta è sola nei suoi appartamenti: la battaglia è ripresa e la fanciulla attende, in ansia, che Lorenzo le comunichi l’esito dello scontro. Apprende che Romeo è salvo, ma che una minaccia incombe su di lei: l’indomani sarà condotta al castello di Tebaldo e costretta alle nozze. Lorenzo le consiglia allora uno stratagemma: le consegna un filtro in grado di simulare la morte, che la fanciulla beve dopo qualche esitazione (“Morte io non temo, il sai”). Giunge Capellio, che impone alla figlia di ritirarsi e di prepararsi alle nozze. Giulietta scongiura il padre di abbracciarla; questi è turbato, ma mette a tacere i propri rimorsi. Manda a cercare Tebaldo e gli ordina di sorvegliare Lorenzo, di cui comincia a diffidare. In una via di Verona, intanto, Romeo – allarmato dalla mancanza di notizie – è in cerca di Lorenzo. S’imbatte in Tebaldo, che lo sfida a duello (“Stolto, a un sol mio grido”); ma sul punto di battersi, i due rivali sono trattenuti da una musica funebre: è il corteo che accompagna alla tomba Giulietta, creduta morta da tutti. Romeo e Tebaldo si abbandonano alla disperazione. Nel luogo in cui è sepolta Giulietta giunge Romeo, con seguito di Montecchi; fa aprire la tomba e parla, in delirio, all’amata. Ordina ai suoi di allontanarsi, invoca nuovamente la salma di Giulietta (“Deh, tu, bell’anima”) e si avvelena. Giulietta si risveglia, pronunciando il nome di Romeo: scorge il giovane ai piedi del sepolcro e pensa l’abbia raggiunta perché avvertito da Lorenzo. Appresa la terribile verità, i due amanti si stringono in un ultimo abbraccio; Romeo muore e Giulietta cade riversa sul suo corpo. Giungono i seguaci di Romeo, inseguiti da Capellio e dai suoi: di fronte alla tragica scena, Capellio sente ricadere su di sé tutte le conseguenze dell’odio tra le due fazioni nemiche.
Nel finale dell’opera, per un lungo periodo di tempo il duetto finale veniva spesso sostituito con quello composto da Vaccaj. Qui, troviamo pagine di musica stupenda, come la romanza di Giulietta—“Oh quante volte,oh quante!”, che non è tratta da Zaira, ma dalla prima opera di Bellini “Adelson e Salvini”.
Dopo aver sperimentato, con La straniera, una declamazione asciutta e un canto poco espansivo, nei Capuleti Bellini torna al lirismo canoro, all’effusione di melodie morbide, elegiache, accattivanti, che al soggetto posto in musica – la tragica storia degli amanti veronesi – si confanno perfettamente; alla dolcezza melodica, I Capuleti e i Montecchi uniscono l’espressività del canto, l’attenzione per l’intonazione del testo poetico, l’equilibrio della strumentazione. Nella stretta del primo finale v’è un luogo che attira l’attenzione generale (suscitò, tra l’altro, l’entusiasmo di Berlioz): nel tumulto collettivo, i due giovani protagonisti intonano la loro melodia all’unisono (“Se ogni speme è a noi rapita”), esprimendo comunione perfetta d’affetti e d’intenti. Anche il finale dell’opera è assolutamente degno di nota: tutto in stile declamato, in un’alternanza continua tra recitativo accompagnato e arioso, presta la massima attenzione ai trapassi psicologici dei personaggi in scena e raggiunge vette d’alto patetismo. Per la sua novità, il finale sconcertò una parte del pubblico ed ebbe un’accoglienza controversa. Se a tutto ciò si unisce il fatto che esso poco si presta ad assecondare le velleità esibizionistiche di una primadonna, si comprende perché ben presto (a partire dalle rappresentazioni di Firenze nel 1831) si affermasse la consuetudine di eseguire l’opera belliniana sostituendone il finale con quello, più tradizionale, dell’opera scritta da Vaccai sullo stesso soggetto.
I Capuleti e i Montecchi rientrano nel novero delle opere più rappresentate, nel corso dell’Ottocento, nei teatri italiani ed europei. All’opera belliniana legarono il proprio nome tutti i principali cantanti dell’epoca, fra i quali Maria Malibran, Giuditta Pasta, Fanny Tacchinardi Persiani, Giovanni Battista Rubini, Domenico Donzelli; interpretando Romeo sulle scene tedesche, negli anni Trenta, Wilhelmine Schröder-Devrient impressionò vivamente il giovane Wagner. Nel NovecentoI Capuleti e i Montecchi sono stati ripresi dapprima a Catania nel 1935, in occasione del centenario della morte di Bellini, poi in vari teatri a partire dagli anni Cinquanta (alla Scala di Milano nel 1966, in un discusso allestimento diretto da Abbado, la parte di Romeo venne affidata al tenore Giacomo Aragall); oggi l’opera occupa nuovamente un posto stabile nel repertorio dei teatri lirici.